Decapitati i clan Capriati e Mercante-Diomede, Cafiero: «Veri e propri consorzi criminali»

Il procuratore nazionale antimafia: «Legami con Camorra, Cosa Nostra e 'Ndrangheta nell'acquisto di stupefacenti»

lunedì 18 giugno 2018 13.37
A cura di Riccardo Resta
Duro colpo inferto dai Carabinieri del ROS e dalla DDA di Bari ai clan mafiosi Mercante-Diomede e Capriati, tra loro federati. Sono 104 gli arresti eseguiti fin dalle prime ore del giorno a Bari e su tutto il territorio nazionale per associazione mafiosa, tentato omicidio, rapina, sequestro di persona, detenzione di armi, lesioni personali con aggravante mafiosa e violazione della sorveglianza speciale.

L'operazione "Pandora" ha permesso di far scattare le manette ai polsi di numerosi esponenti della criminalità organizzata, tra cui il boss bitontino Domenico Conte (raggiunto in carcere dall'ordinanza di arresto), Giuseppe Antuofermo, Francesco Cassano, Giuseppe Rocco Cassano, Alessandro d'Elia, Mario d'Elia, Salvatore Dicataldo, Vito Dicataldo, Vincenzo Screti e Vito Antonio Tarullo.

Tra gli elementi più rilevanti dell'indagine, spicca la natura ancora estremamente arcaica della mafia barese che, come sottolinea in conferenza stampa il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, è ancora dedita ai riti di affiliazione, a differenza della criminalità per esempio foggiana. La gerarchia mafiosa impone ruoli e compiti degli affiliati, rigide regole interne al clan, controllo militare del territorio, articolazioni in provincia.

«La criminalità barese - spiega il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho - ha una struttura ben radicata. Non si tratta di clan fluidi, ma si sono rafforzati grazie alle affiliazioni avvenute nel carcere secondo rituali propriamente camorristi. Anche le loro alleanze con la Camorra risalgono ai decenni passati».

Se negli anni scorsi si pensava ai clan mafiosi come delle monadi in eterno contrasto tra loro, l'indagine ha permesso di scoprire come l'evoluzione della mentalità criminale abbia portato alla costituzione di vere e proprie società consortili per meglio controllare il territorio e gestire le attività illegali. «Non vi è più una criminalità che opera da sola - continua Cafiero - soprattutto nell'acquisto di partite di stupefacenti, ma anche nel riciclaggio. Si nota spesso un legame che viene rinnovato con 'Ndrangheta, alle volte con Cosa Nostra e la Camorra. Questo evidenzia come le mafie che operano su territorio nazionale, partendo dal Centro-Sud per proiettarsi in altre zone e all'estero, non lavorano in modo isolato, ma trovano sempre punti di convergenza. Questo è l'approdo delle ultime investigazioni».

L'indagine ha permesso di individuare, all'interno del clan Mercante, il capofamiglia Giuseppe quale elemento apicale all'interno del sodalizio, con Nicola Diomede quale suo alter-ego. Le varie articolazioni del clan si diramavano nei quartieri Libertà e Carrassi, oltre che nei paesi della provincia quali Bitonto (nel 2013 il tentato omicidio di Domenico Conte, esponente bitontino dei Capriati, nonostante la federazione tra i due clan), Triggiano-Adelfia e Altamura-Gravina. L'inchiesta di ROS e DDA ha permesso, inoltre, di accertare i rapporti che il clan Mercante intratteneva con i Parisi e i Di Cosola, la storica conflittualità con gli Strisciuglio e la mutua assistenza con i Capriati.

Gli affari criminali della famiglia Mercante si esplicavano in usura, furti in abitazione, ricettazione, possesso di armi e stupefacenti e in taluni casi il sodalizio mafioso tentava di intrufolarsi anche in attività legali, quali l'installazione di slot-machine negli esercizi pubblici. Giuseppe Mercante, affiliato dal noto capomafia della Società Foggiana Giosuè Rizzi (morto nel 2011), era solito impartire vere e proprie lezioni di mafia in un bar dove i suoi sgherri andavano ad ossequiarlo e dove imparavano le tre regole della criminalità organizzata: omertà, rispetto, dignità dell'uomo. Dalle intercettazioni ambientali e telefoniche, inoltre, sono emersi rapporti anche con la Sacra Corona Unita di Lecce.

Nel clan Capriati, invece, la testa era Antonio, coadiuvato dai nipoti Domenico e Filippo, già in carcere ma non destinatari dell'attuale provvedimento. Accertata la collaborazione con i Mercante, è emerso dall'inchiesta che i Capriati erano riusciti a rinnovare la loro capacità di controllo soprattutto nello storico feudo di Bari vecchia, oltre che a San Girolamo e in provincia (Bitonto, Triggiano, Valenzano ma anche Terlizzi, Ruvo, Corato, Bisceglie e Trani), dove operavano Domenico Amoruso, Gioacchino Baldassarre e Domenico COnte quali loro delegati.

Dal lavoro degli inquirenti è emersa, inoltre, la responsabilità dei Capriati nel tentato omicidio di un affiliato del clan Strisciuglio (2011, San Paolo) e di un organico dello stesso clan (2011, San Paolo). Lo stesso clan nel 2011 aveva ordinato la rapina a un camion dell'azienda TNT in provincia di Bari.

Il clan Capriati, sfruttando la permanenza in carcere, era riuscito a fidelizzare esponenti della criminalità di San Severo, destinatari del provvedimento restrittivo, amplificando le sue potenzialità attraverso il reclutamento di soggetti capaci di operare sul territorio con effetto sorpresa, in cambio di droga e armi.

Un apparato criminale che si serviva anche di collaborazioni con la cosiddetta «Borghesia mafiosa - come la definisce Cafiero. Si tratta di soggetti che sono nel circuito dell'antimafia, che agiscono nelle operazioni antiracket (è il caso dell'adelfiese Roberto De Blasio, NdR), soggetti che costituiscono i mediatori con cui si muove la mafia. Questo consente alle organizzazioni criminali di svilupparsi senza essere immediatamente individuate e di entrare nell'economia legale, nella politica e nelle amministrazioni con soggetti che sono la loro longa manus. L'aspetto più grave è la presenza di una fascia intermedia fatta di commercialisti, avvocati, uomini delle istituzioni contigui alle mafie che consentono loro di rafforzarsi. Sono schermi che si allargano perché, purtroppo, c'è convenienza nel riciclare il denaro delle mafie».