La «società della guerra» contro Busco: 56 arresti fra i clan Palermiti e Parisi
Aveva una vera e propria struttura gerarchica e una cassa comune. Il business più redditizio derivava dallo spaccio di droga
lunedì 18 marzo 2024
22.57
Chiuso il cerchio sui clan Parisi e Palermiti, a più di un mese dall'operazione "Codice interno". Dopo i 135 arresti del 26 febbraio scorso sulle presunte infiltrazioni mafiose nel mondo dell'economia pulita e della politica a Bari, oggi i Carabinieri hanno notificato altre 56 ordinanze di custodia cautelare per traffico di droga.
Tutti, secondo la misura cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Giuseppe Ronzino, sono accusati del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti con l'aggravante dell'agevolazione mafiosa. Le indagini, condotte dal 2017 sino al 2020, partirono dopo i tre omicidi di mafia commessi ad inizio del 2017 nel popoloso quartiere Japigia di Bari, delitti frutto della faida tra il clan Palermiti e gli «scissionisti» capeggiati da Antonio Busco.
Per sostenere il conflitto e permettere la cacciata di Busco e dei suoi sodali dal rione, il clan Palermiti si alleò col clan Parisi creando una «società della guerra». Così come ha spiegato il collaboratore di giustizia Domenico Milella: «Per affrontare questa guerra dovevamo mettere in mezzo le forze economiche. A noi non conveniva perché noi avevamo un reddito più alto e loro avevano un reddito basso, però… "non fa niente, dissi io, mettiamo tutti insieme per far stare uniti tutti"».
La società, secondo le indagini dei pubblici ministeri antimafia Fabio Buquicchio, Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano con l'aggiunto Francesco Giannella, aveva una vera struttura gerarchica e una cassa comune, «destinata al reperimento di ingenti forniture di sostanze stupefacenti e al fine di acquisire elementi in grado di consentire una sorta di solidarietà economica a tutti, nonché per l'acquisto di beni strumentali all'associazione, quali armi e apparati rice-trasmittenti».
Uno smercio di circa 10 chilogrammi di cocaina alla settimana al prezzo di quasi 40mila euro. Il business più redditizio, infatti, derivava proprio dallo spaccio di stupefacenti: il clan si riforniva di cocaina dal capoluogo, attraverso Maurizio Larizzi, da Terlizzi, con Roberto Dello Russo, e di hashish e marijuana da Marocco e Spagna. E si spacciava anche durante il periodo Covid: per non perdere i clienti, infatti, i pusher si travestivano da imbianchini o addirittura da operatori del 118.
«Sappiamo che gli stupefacenti sono il primo canale con il quale i clan sopravvivono, ma se c'è una vendita c'è anche una forte richiesta», ha detto il procuratore di Bari, Roberto Rossi. «Su questo bisogna porre attenzione, perché non riusciremo a fermare il traffico di stupefacenti se la domanda è così molto sostenuta».
Tutti, secondo la misura cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Giuseppe Ronzino, sono accusati del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti con l'aggravante dell'agevolazione mafiosa. Le indagini, condotte dal 2017 sino al 2020, partirono dopo i tre omicidi di mafia commessi ad inizio del 2017 nel popoloso quartiere Japigia di Bari, delitti frutto della faida tra il clan Palermiti e gli «scissionisti» capeggiati da Antonio Busco.
Per sostenere il conflitto e permettere la cacciata di Busco e dei suoi sodali dal rione, il clan Palermiti si alleò col clan Parisi creando una «società della guerra». Così come ha spiegato il collaboratore di giustizia Domenico Milella: «Per affrontare questa guerra dovevamo mettere in mezzo le forze economiche. A noi non conveniva perché noi avevamo un reddito più alto e loro avevano un reddito basso, però… "non fa niente, dissi io, mettiamo tutti insieme per far stare uniti tutti"».
La società, secondo le indagini dei pubblici ministeri antimafia Fabio Buquicchio, Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano con l'aggiunto Francesco Giannella, aveva una vera struttura gerarchica e una cassa comune, «destinata al reperimento di ingenti forniture di sostanze stupefacenti e al fine di acquisire elementi in grado di consentire una sorta di solidarietà economica a tutti, nonché per l'acquisto di beni strumentali all'associazione, quali armi e apparati rice-trasmittenti».
Uno smercio di circa 10 chilogrammi di cocaina alla settimana al prezzo di quasi 40mila euro. Il business più redditizio, infatti, derivava proprio dallo spaccio di stupefacenti: il clan si riforniva di cocaina dal capoluogo, attraverso Maurizio Larizzi, da Terlizzi, con Roberto Dello Russo, e di hashish e marijuana da Marocco e Spagna. E si spacciava anche durante il periodo Covid: per non perdere i clienti, infatti, i pusher si travestivano da imbianchini o addirittura da operatori del 118.
«Sappiamo che gli stupefacenti sono il primo canale con il quale i clan sopravvivono, ma se c'è una vendita c'è anche una forte richiesta», ha detto il procuratore di Bari, Roberto Rossi. «Su questo bisogna porre attenzione, perché non riusciremo a fermare il traffico di stupefacenti se la domanda è così molto sostenuta».