Nei laboratori UniBa nasce il dispositivo per singole molecole: «Potenziale rivoluzione nella diagnosi medica»
La professoressa Torsi spiega: «Tecnologia che rileva i bio-marcatori appena si manifestano fenomeni legati alla malattia»
lunedì 10 settembre 2018
L'Università di Bari si conferma polo di eccellenza nel campo della ricerca scientifica. Stavolta ad assurgere agli onori delle cronache è la squadra di ricercatori coordinata dalla professoressa Luisa Torsi, ordinaria presso il dipartimento di Chimica. Alla brillante equipe UniBa, che ha lavorato insieme a CNR e UniBrescia, va riconosciuta una scoperta potenzialmente rivoluzionaria: la prima evidenza sperimentale della misura di concentrazioni bassissime di proteine fino al limite record di una singola molecola, usando un transistor di dimensioni millimetriche.
La tecnologia, battezzata SiMoT (Single-Molecule with a Transistor), si è guadagnata l'attenzione della comunità scientifica internazionale grazie alla recensione ricevuta su Nature (qui il link), il più autorevole magazine specialistico del mondo.
«Abbiamo realizzato questo dispositivo, studiandone le proprietà e ottimizzandone le caratteristiche, in modo da renderlo capace di rivelare una sola molecola – ci spiega la professoressa Torsi. Altri studi ci sono riusciti in passato, ma noi per la prima volta lo abbiamo fatto con un dispositivo millimetrico, che può essere quindi realizzato con tecnologie large-area, che ci permettono di lavorare a costi ragionevolmente bassi».
Rilevare la singola molecola/proteina è un passaggio fondamentale nel caso dei bio-marcatori, sostanze biologiche che permettono al medico di comprendere se un paziente stia o meno sviluppando una certa patologia. «Le tecniche finora usate per individuare i bio-marcatori – continua la professoressa Torsi – hanno un certo grado di sensibilità: i dispositivi commerciali ne rilevano milioni se non miliardi. Quando si ha, invece, a che fare con un dispositivo che riesce a rivelare il bio-marcatore non quando l'organismo ne ha già prodotti una certa quantità, significa che il medico ha in mano uno strumento che potrebbe permettergli di stabilire lo stato di malattia di un paziente appena si manifestano i primissimi eventi legati alla patologia».
Realizzarla, in prospettiva, a costi molto bassi potrebbe permettere a questa tecnologia di entrare nella prassi quotidiana di un qualsiasi ospedale o centro diagnostico. Una potenziale rivoluzione nell'approccio alle cure che, però, abbisogna ancora di ulteriori approfondimenti: «Prima che questo possa diventare uno strumento realmente utile per un medico sarà necessario che venga fabbricato un dispositivo che è formato da novantasei di questi sensori. Un medico ha bisogno di monitorare più di un bio-marcatore per avere l'informazione sufficiente a produrre una diagnosi. Stiamo ancora parlando di un primo step verso una tecnologia estremamente promettente: la sensibilità che abbiamo raggiunto con questo dispositivo è un record mondiale assoluto. Siamo il primo, e per ora l'unico, laboratorio in grado di rilevare la singola molecola».
Prematura è anche la stima dei tempi, anche se si può avere un'idea di massima: «Inizieremo subito a lavorare sull'array – spiega la professoressa. In via ufficiosa possiamo dire di aver vinto un grosso finanziamento che ci permetterà di affrontarne la realizzazione con un partenariato ampio. Un progetto che richiederà tre anni e mezzo di lavoro, quindi la tecnologia potrebbe ragionevolmente entrare a regime negli ospedali fra una decina di anni. La divulgazione su Nature ha attirato l'attenzione di diverse aziende americane; stiamo firmando una serie di accordi per parlare di un possibile sviluppo del brevetto, che appartiene all'Università di Bari».
Alla base del metodo scientifico ci sono prove ed errori, e anche il primo risultato questa rivoluzionaria progettazione, costata due anni di fatica, è «Arrivato per sbaglio – racconta la coordinatrice dell'equipe. Avevamo nelle mani un dispositivo che sembrava molto sensibile, ma le curve ci davano l'idea che potesse esserlo ancora di più. Siamo quindi scesi sempre più in basso con le concentrazioni che misuravamo, e a un certo punto siamo arrivati al limite ultimo. Davanti a un dato del genere, ovviamente, non abbiamo creduto ai nostri occhi, perché ci sembrava impossibile vedere un evento nanoscopico con un dispositivo un milione di volte più grande della proteina che volevamo osservare. Il percorso è iniziato quando abbiamo provato a capire il perché: i due anni di lavoro sono serviti a isolare l'effetto, a dimostrarne la realtà e a comprendere come mai».
Fondamentale è stato l'approccio interdisciplinare di chimici, fisici e ingegneri. Coautori della ricerca sono, insieme alla professoressa Torsi: Eleonora Macchia, Kyriaki Manoli, Brigitte Holzer, Cinzia Di Franco, Matteo Ghittorelli, Fabrizio Torricelli, Domenico Alberga, Giuseppe Felice Mangiatordi, Gerardo Palazzo, Gaetano Scamarcio.
«Tutte queste competenze – afferma la professoressa Torsi – sono state indispensabili per affrontare il problema da tutti gli angoli possibili. Ognuno di noi ha provato a dipanare la matassa secondo la propria disciplina, per poi trovare un'interpretazione che mettesse insieme tutti questi elementi». «La parte sperimentale ha richiesto il superamento di innumerevoli problemi», sottolinea la dr.ssa Macchia.
«L'interpretazione dei dati – spiega il ricercatore Giuseppe Mangiatordi – può essere condotta attraverso il computer. Se si pensa ai cambiamenti dell'informatica negli ultimi dieci anni ci si rende conto di come questa sia una risorsa preziosa nella ricerca scientifica. Nel caso della chimica ci sono tecniche che permettono di capire l'evoluzione nel tempo dei sistemi chimici. Spingersi, come abbiamo fatto noi, a livello atomico permette di chiudere il cerchio quando si fa ricerca ad alto livello».
La tecnologia, battezzata SiMoT (Single-Molecule with a Transistor), si è guadagnata l'attenzione della comunità scientifica internazionale grazie alla recensione ricevuta su Nature (qui il link), il più autorevole magazine specialistico del mondo.
«Abbiamo realizzato questo dispositivo, studiandone le proprietà e ottimizzandone le caratteristiche, in modo da renderlo capace di rivelare una sola molecola – ci spiega la professoressa Torsi. Altri studi ci sono riusciti in passato, ma noi per la prima volta lo abbiamo fatto con un dispositivo millimetrico, che può essere quindi realizzato con tecnologie large-area, che ci permettono di lavorare a costi ragionevolmente bassi».
Rilevare la singola molecola/proteina è un passaggio fondamentale nel caso dei bio-marcatori, sostanze biologiche che permettono al medico di comprendere se un paziente stia o meno sviluppando una certa patologia. «Le tecniche finora usate per individuare i bio-marcatori – continua la professoressa Torsi – hanno un certo grado di sensibilità: i dispositivi commerciali ne rilevano milioni se non miliardi. Quando si ha, invece, a che fare con un dispositivo che riesce a rivelare il bio-marcatore non quando l'organismo ne ha già prodotti una certa quantità, significa che il medico ha in mano uno strumento che potrebbe permettergli di stabilire lo stato di malattia di un paziente appena si manifestano i primissimi eventi legati alla patologia».
Realizzarla, in prospettiva, a costi molto bassi potrebbe permettere a questa tecnologia di entrare nella prassi quotidiana di un qualsiasi ospedale o centro diagnostico. Una potenziale rivoluzione nell'approccio alle cure che, però, abbisogna ancora di ulteriori approfondimenti: «Prima che questo possa diventare uno strumento realmente utile per un medico sarà necessario che venga fabbricato un dispositivo che è formato da novantasei di questi sensori. Un medico ha bisogno di monitorare più di un bio-marcatore per avere l'informazione sufficiente a produrre una diagnosi. Stiamo ancora parlando di un primo step verso una tecnologia estremamente promettente: la sensibilità che abbiamo raggiunto con questo dispositivo è un record mondiale assoluto. Siamo il primo, e per ora l'unico, laboratorio in grado di rilevare la singola molecola».
Prematura è anche la stima dei tempi, anche se si può avere un'idea di massima: «Inizieremo subito a lavorare sull'array – spiega la professoressa. In via ufficiosa possiamo dire di aver vinto un grosso finanziamento che ci permetterà di affrontarne la realizzazione con un partenariato ampio. Un progetto che richiederà tre anni e mezzo di lavoro, quindi la tecnologia potrebbe ragionevolmente entrare a regime negli ospedali fra una decina di anni. La divulgazione su Nature ha attirato l'attenzione di diverse aziende americane; stiamo firmando una serie di accordi per parlare di un possibile sviluppo del brevetto, che appartiene all'Università di Bari».
Alla base del metodo scientifico ci sono prove ed errori, e anche il primo risultato questa rivoluzionaria progettazione, costata due anni di fatica, è «Arrivato per sbaglio – racconta la coordinatrice dell'equipe. Avevamo nelle mani un dispositivo che sembrava molto sensibile, ma le curve ci davano l'idea che potesse esserlo ancora di più. Siamo quindi scesi sempre più in basso con le concentrazioni che misuravamo, e a un certo punto siamo arrivati al limite ultimo. Davanti a un dato del genere, ovviamente, non abbiamo creduto ai nostri occhi, perché ci sembrava impossibile vedere un evento nanoscopico con un dispositivo un milione di volte più grande della proteina che volevamo osservare. Il percorso è iniziato quando abbiamo provato a capire il perché: i due anni di lavoro sono serviti a isolare l'effetto, a dimostrarne la realtà e a comprendere come mai».
Fondamentale è stato l'approccio interdisciplinare di chimici, fisici e ingegneri. Coautori della ricerca sono, insieme alla professoressa Torsi: Eleonora Macchia, Kyriaki Manoli, Brigitte Holzer, Cinzia Di Franco, Matteo Ghittorelli, Fabrizio Torricelli, Domenico Alberga, Giuseppe Felice Mangiatordi, Gerardo Palazzo, Gaetano Scamarcio.
«Tutte queste competenze – afferma la professoressa Torsi – sono state indispensabili per affrontare il problema da tutti gli angoli possibili. Ognuno di noi ha provato a dipanare la matassa secondo la propria disciplina, per poi trovare un'interpretazione che mettesse insieme tutti questi elementi». «La parte sperimentale ha richiesto il superamento di innumerevoli problemi», sottolinea la dr.ssa Macchia.
«L'interpretazione dei dati – spiega il ricercatore Giuseppe Mangiatordi – può essere condotta attraverso il computer. Se si pensa ai cambiamenti dell'informatica negli ultimi dieci anni ci si rende conto di come questa sia una risorsa preziosa nella ricerca scientifica. Nel caso della chimica ci sono tecniche che permettono di capire l'evoluzione nel tempo dei sistemi chimici. Spingersi, come abbiamo fatto noi, a livello atomico permette di chiudere il cerchio quando si fa ricerca ad alto livello».