Paula Stern Achievement Award, BariViva intervista Alberta Zallone
A colloquio con la professoressa barese unica europea vincitrice del prestigioso riconoscimento
mercoledì 20 settembre 2017
Un riconoscimento prezioso, una carriera caratterizzata da dedizione e grande intuito, un impegno costante tra ricerca e vita universitaria. La professoressa barese Alberta Zallone si racconta ai microfoni di BariViva.
Professoressa, lei ha vinto, unica europea, il Paula Stern Achievement Award. Vuole dirci qualcosa in merito?
«Questo premio è relativamente recente, consideri che sono state fatte solo 12 assegnazioni, ma la società americana che lo promuove è molto più vecchia, ha circa 40 anni e man mano ha aggiunto premi al suo curriculum. Premi per i giovani ricercatori, premi per i clinici, ecc… Questo premio che mi hanno dato viene assegnato per la ricerca e l'insegnamento, ed è riservato alle donne. Infatti è intitolato a Paula Stern, una biologa farmacologa che ha fatto ricerche sugli effetti dei farmaci sul tessuto osseo, tuttora in vita, ma non più in attività per colpa di una grave malattia. Prima di questo avevo ottenuto un altro premio, nel 2006, sempre da parte di una società scientifica internazionale, ma su quello tacqui, mentre stavolta ho pensato fosse giusto a fine carriera far sapere di essere stata onorata di questo riconoscimento».
Lei ha effettuato tutta la sua carriera a Bari, nonostante alcuni periodi all'estero. Come mai questa scelta?
«In effetti, come università ho iniziato e proseguito sempre a Bari, pur avendo fatto vari periodi all'estero. Sono partita dal percorso da borsista fino al ruolo di professore associato, nonché membro del consiglio di amministrazione negli ultimi anni. Credo che in fondo siano state proprio le esperienze all'estero a spingermi a rimanere. Fin dalla prima, subito dopo la laurea, prima ancora di iniziare a lavorare a Bari. In quel periodo ho fatto due anni alla Pennsylvania State University. Personalmente fare questi due anni all'estero mi hanno dato una mentalità diversa, più sprovincializzata. Questa nuova mentalità mi ha permesso anche di capire come muovermi e proprio per questo, per tutto il tempo in cui ho gestito un dottorato, ho sempre obbligato i ragazzi a fare almeno un anno fuori, e alcuni ci sono anche rimasti. Una mia allieva oggi è professore ordinario alla Washington University di Saint Louise, a meno di 50 anni. Un altro si trova in Connecticut. La possibilità di stare all'estero è fondamentale per la formazione personale e professionale, quelli che sono tornati, sono tornati più forti e con una maggiore conoscenza della lingua, cosa fondamentale in quanto l'inglese è la lingua ufficiale scientifica. Ad un giovane ricercatore consiglio di fare almeno un paio d'anni di post-doc all'estero per farsi conoscere e comprendere anche meglio un diverso approccio lavorativo».
Com'è stato essere una donna in un ambiente molto maschile, in un periodo anche difficile come poteva essere l'Italia di 30-40 anni fa?
Come donna, in effetti, ho avuto qualche difficoltà. Per il direttore dell'epoca era strano avere me, avrebbe sicuramente preferito un maschio medico che una donna biologo. Ma io non ero né maschio né medico e facevo cose che spesso non capiva. Ho insistito nonostante tutto, sono stata caparbia ed eccomi qua. Non mi sono mai curata delle critiche e sono andata la mia strada. Piano piano mi sono fatta conoscere, riuscivo a far arrivare fondi e andavo avanti con le mie ricerche. E questo mi ha permesso di fare il mio lavoro.
Lei ora è andata in pensione, sta continuando a fare ricerca oppure no?
«Quando in Italia si va in pensione, purtroppo, ti chiudono i cancelli. Con la nuova legge, si va in pensione a 70 anni, e solo nei due anni successivi al pensionamento si possono avere incarichi di insegnamento e finire i propri fondi. Passati quei due anni, i fondi rimasti non possono più essere usati e non possono esserne richiesti di nuovi. Comunque, è un lavoro che ti appassiona e cui devi dedicare tempo, per cui ad un certo punto è meglio dare un taglio netto. Anche se non l'ho dato davvero, in quanto dal 2004 avevo ed ho una collaborazione con una università americana, con la facoltà di medicina. Tutti gli anni sono andata per un mese all'anno, abbiamo sviluppato un mio progetto, insieme ad un endocrinologo che è riuscito ad avere fondi per questo, finanziando anche le mie spese. Ad oggi sta cercando di richiedere altri fondi e vorrebbe che continuassi. Nel frattempo mi ha coinvolto in un progetto per la pubblicazione di una enciclopedia. Io come co-editor devo curare la produzione di almeno 15 capitoli relativi ad un argomento specifico. Il mio argomento è la relazione tra le ossa e gli altri organi. Devo trovare gli autori dei capitoli e fare da editor, lavoro che dovrebbe finire nel 2020. Ricerca vera e propria ora non ne ho perché tutti i miei ragazzi si sono spostati in base alle loro esigenze, e sinceramente non mi dispiace fare la nonna.
Ultimamente si sente sempre parlare di problemi dell'università italiana, nello specifico di quelle del sud. Secondo lei quali sono i reali problemi della nostra università?
«Innanzitutto diciamo che è vero che le università del sud ottengono mediamente meno fondi rispetto a quelle del nord. È però anche vero che l'università di Bari è generalista (ovvero comprende in sé il ramo letterario e quello medico) e questo per i finanziamenti è uno svantaggio, perché fa un tipo di ricerca non facilmente verificabile. Il politecnico stesso ottiene più fondi essendo specifico. Per le pubblicazioni di tipo scientifico è facile capire la classificazione, mentre per quanto riguarda la ricerca in ambito letterario si è meno classificabili, e troppo spesso si è in balia dei classificatori del ministero. Inoltre siamo in un periodo in cui molti docenti stanno andando in pensione senza essere sostituiti. Tra i docenti poi ci sono quelli che fanno ricerca, e quelli che insegnano e basta. Chi insegna e basta è una palla al piede. Poi ci sono facoltà in cui si fa la professione privata per tradizione, e chi fa la professione privata non può stare in laboratorio. Bisogna inoltra fare determinati ritmi per produrre ricerca, se si studia molto e si fa molta ricerca arrivano i risultati. Più produci e lavori, più attrai allievi e crei qualcosa dopo di te. Non siamo mostri, siamo solo persone che lavorano».
In conclusione, ha qualche aneddoto da raccontarci sulla sua lunga carriera?
«Vorrei ricordare un episodio legato alla cosa che mi ha reso nota, ovvero l'aver sviluppato un metodo che ha permesso di studiare meglio il riassorbimento osseo. In pratica sono stata capace di mettere in coltura, in vitro, quelle cellule che, detto brutalmente, mangiano l'osso e si formano solo quando c'è il bisogno di rimodellare e portare via osso, e poi scompaiono. Insieme ad una ragazza che lavorava con me abbiamo sviluppato questa cosa, molti laboratori ci provavano e non ci riuscivano e il nostro processo non è stato capito subito. Ci siamo poi trovate a Milano durante un convegno sui tumori ossei, siamo andati perché erano presenti molti speaker che avremmo voluto conoscere e abbiamo avvicinato questo collega. Subito ci ha guardato con un po' di curiosità. Infatti aveva letto il nostro lavoro, ma era rimasto stupito perché tutti cercavano di fare questa cosa e improvvisamente noi, tre donne del sud, avevamo pubblicato un lavoro proprio su questo. Ma lui aveva l'idea delle donne del sud Italia simili alle italo americane che incontrava di solito: piccole grasse e magari anche con in baffi. E invece, ci disse, mi sono trovato di fronte tre belle donne. Ogni volta tira fuori questa storia e allora quando mi diedero l'altro premio, per scherzare comprammo quella specie di occhiali col nasone e i baffi finti, ce li mettemmo e andammo da lui dicendo: "Oggi abbiamo dimenticato di rasarci"».
Professoressa, lei ha vinto, unica europea, il Paula Stern Achievement Award. Vuole dirci qualcosa in merito?
«Questo premio è relativamente recente, consideri che sono state fatte solo 12 assegnazioni, ma la società americana che lo promuove è molto più vecchia, ha circa 40 anni e man mano ha aggiunto premi al suo curriculum. Premi per i giovani ricercatori, premi per i clinici, ecc… Questo premio che mi hanno dato viene assegnato per la ricerca e l'insegnamento, ed è riservato alle donne. Infatti è intitolato a Paula Stern, una biologa farmacologa che ha fatto ricerche sugli effetti dei farmaci sul tessuto osseo, tuttora in vita, ma non più in attività per colpa di una grave malattia. Prima di questo avevo ottenuto un altro premio, nel 2006, sempre da parte di una società scientifica internazionale, ma su quello tacqui, mentre stavolta ho pensato fosse giusto a fine carriera far sapere di essere stata onorata di questo riconoscimento».
Lei ha effettuato tutta la sua carriera a Bari, nonostante alcuni periodi all'estero. Come mai questa scelta?
«In effetti, come università ho iniziato e proseguito sempre a Bari, pur avendo fatto vari periodi all'estero. Sono partita dal percorso da borsista fino al ruolo di professore associato, nonché membro del consiglio di amministrazione negli ultimi anni. Credo che in fondo siano state proprio le esperienze all'estero a spingermi a rimanere. Fin dalla prima, subito dopo la laurea, prima ancora di iniziare a lavorare a Bari. In quel periodo ho fatto due anni alla Pennsylvania State University. Personalmente fare questi due anni all'estero mi hanno dato una mentalità diversa, più sprovincializzata. Questa nuova mentalità mi ha permesso anche di capire come muovermi e proprio per questo, per tutto il tempo in cui ho gestito un dottorato, ho sempre obbligato i ragazzi a fare almeno un anno fuori, e alcuni ci sono anche rimasti. Una mia allieva oggi è professore ordinario alla Washington University di Saint Louise, a meno di 50 anni. Un altro si trova in Connecticut. La possibilità di stare all'estero è fondamentale per la formazione personale e professionale, quelli che sono tornati, sono tornati più forti e con una maggiore conoscenza della lingua, cosa fondamentale in quanto l'inglese è la lingua ufficiale scientifica. Ad un giovane ricercatore consiglio di fare almeno un paio d'anni di post-doc all'estero per farsi conoscere e comprendere anche meglio un diverso approccio lavorativo».
Com'è stato essere una donna in un ambiente molto maschile, in un periodo anche difficile come poteva essere l'Italia di 30-40 anni fa?
Come donna, in effetti, ho avuto qualche difficoltà. Per il direttore dell'epoca era strano avere me, avrebbe sicuramente preferito un maschio medico che una donna biologo. Ma io non ero né maschio né medico e facevo cose che spesso non capiva. Ho insistito nonostante tutto, sono stata caparbia ed eccomi qua. Non mi sono mai curata delle critiche e sono andata la mia strada. Piano piano mi sono fatta conoscere, riuscivo a far arrivare fondi e andavo avanti con le mie ricerche. E questo mi ha permesso di fare il mio lavoro.
Lei ora è andata in pensione, sta continuando a fare ricerca oppure no?
«Quando in Italia si va in pensione, purtroppo, ti chiudono i cancelli. Con la nuova legge, si va in pensione a 70 anni, e solo nei due anni successivi al pensionamento si possono avere incarichi di insegnamento e finire i propri fondi. Passati quei due anni, i fondi rimasti non possono più essere usati e non possono esserne richiesti di nuovi. Comunque, è un lavoro che ti appassiona e cui devi dedicare tempo, per cui ad un certo punto è meglio dare un taglio netto. Anche se non l'ho dato davvero, in quanto dal 2004 avevo ed ho una collaborazione con una università americana, con la facoltà di medicina. Tutti gli anni sono andata per un mese all'anno, abbiamo sviluppato un mio progetto, insieme ad un endocrinologo che è riuscito ad avere fondi per questo, finanziando anche le mie spese. Ad oggi sta cercando di richiedere altri fondi e vorrebbe che continuassi. Nel frattempo mi ha coinvolto in un progetto per la pubblicazione di una enciclopedia. Io come co-editor devo curare la produzione di almeno 15 capitoli relativi ad un argomento specifico. Il mio argomento è la relazione tra le ossa e gli altri organi. Devo trovare gli autori dei capitoli e fare da editor, lavoro che dovrebbe finire nel 2020. Ricerca vera e propria ora non ne ho perché tutti i miei ragazzi si sono spostati in base alle loro esigenze, e sinceramente non mi dispiace fare la nonna.
Ultimamente si sente sempre parlare di problemi dell'università italiana, nello specifico di quelle del sud. Secondo lei quali sono i reali problemi della nostra università?
«Innanzitutto diciamo che è vero che le università del sud ottengono mediamente meno fondi rispetto a quelle del nord. È però anche vero che l'università di Bari è generalista (ovvero comprende in sé il ramo letterario e quello medico) e questo per i finanziamenti è uno svantaggio, perché fa un tipo di ricerca non facilmente verificabile. Il politecnico stesso ottiene più fondi essendo specifico. Per le pubblicazioni di tipo scientifico è facile capire la classificazione, mentre per quanto riguarda la ricerca in ambito letterario si è meno classificabili, e troppo spesso si è in balia dei classificatori del ministero. Inoltre siamo in un periodo in cui molti docenti stanno andando in pensione senza essere sostituiti. Tra i docenti poi ci sono quelli che fanno ricerca, e quelli che insegnano e basta. Chi insegna e basta è una palla al piede. Poi ci sono facoltà in cui si fa la professione privata per tradizione, e chi fa la professione privata non può stare in laboratorio. Bisogna inoltra fare determinati ritmi per produrre ricerca, se si studia molto e si fa molta ricerca arrivano i risultati. Più produci e lavori, più attrai allievi e crei qualcosa dopo di te. Non siamo mostri, siamo solo persone che lavorano».
In conclusione, ha qualche aneddoto da raccontarci sulla sua lunga carriera?
«Vorrei ricordare un episodio legato alla cosa che mi ha reso nota, ovvero l'aver sviluppato un metodo che ha permesso di studiare meglio il riassorbimento osseo. In pratica sono stata capace di mettere in coltura, in vitro, quelle cellule che, detto brutalmente, mangiano l'osso e si formano solo quando c'è il bisogno di rimodellare e portare via osso, e poi scompaiono. Insieme ad una ragazza che lavorava con me abbiamo sviluppato questa cosa, molti laboratori ci provavano e non ci riuscivano e il nostro processo non è stato capito subito. Ci siamo poi trovate a Milano durante un convegno sui tumori ossei, siamo andati perché erano presenti molti speaker che avremmo voluto conoscere e abbiamo avvicinato questo collega. Subito ci ha guardato con un po' di curiosità. Infatti aveva letto il nostro lavoro, ma era rimasto stupito perché tutti cercavano di fare questa cosa e improvvisamente noi, tre donne del sud, avevamo pubblicato un lavoro proprio su questo. Ma lui aveva l'idea delle donne del sud Italia simili alle italo americane che incontrava di solito: piccole grasse e magari anche con in baffi. E invece, ci disse, mi sono trovato di fronte tre belle donne. Ogni volta tira fuori questa storia e allora quando mi diedero l'altro premio, per scherzare comprammo quella specie di occhiali col nasone e i baffi finti, ce li mettemmo e andammo da lui dicendo: "Oggi abbiamo dimenticato di rasarci"».