Politica
L'ombra della mafia sul palazzo ex Inpdad. Bonafede: «Approfondiremo»
Bagarre alla Camera anche sull'immobile scelto per trasferire il Palagiustizia, il proprietario è legato a vecchie inchieste sulla criminalità organizzata
Bari - venerdì 13 luglio 2018
0.34
È polemica a Bari sull'immobile scelto come soluzione temporanea per il Palagiustizia cittadino. Dopo la bagarre in aula alla Camera accaduta ieri durante la discussione relativa al decreto di sospensione dei processi a Bari, un'altra tegola cade addosso al neo-ministro, che fin da subito si è esposto e messo in prima linea per la risoluzione del problema della giustizia barese. Le nubi ora si addensano sulla proprietà del palazzo ex Inpdap. Il "problema", sollevato da più parti, riguarda sia l'essere di un privato e il dover stipulare un contratto di affitto per 6 anni fino al 2024 al costo di circa un milione e 200 mila euro, sia il nome di uno degli intestatari dell'azienda proprietaria dell'immobile.
L'ex palazzo Inpdap, infatti, è stato acquistato dalla Sopraf srl, amministrata da Roberto Patano e Giuseppe Settanni. E proprio il nome di quest'ultimo ha acceso vecchi ricordi di mafia, collusione e arresti importanti. Il suo nome è legato a quello di Michele Labellarte, considerato dagli inquirenti come il cassiere del clan Parisi fino alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore nel 2009. Il nome di Labellarte richiama echi di un'inchiesta che proprio in quell'anno sconvolse la tranquillità barese, scoperchiando un vaso di pandora che vedeva coinvolti in loschi traffici imprenditori, mafiosi, e politici di diversi schieramenti. Qualcuno ricorderà anche lo scandalo dietro la costruzione di quello che era stato definito "il più grande campus d'Italia", con 3500 posti letto a Valenzano. Storie da film, con Labellarte che sul letto di ospedale è costretto dai suoi compari mafiosi a spiegare dove sono i soldi, di cui lui si è da anni occupato e che tutti temono di perdere in caso di sua morte improvvisa. E come entra Settanni in tutto questo? Entra come testimone nel processo successivo all'inchiesta, come persona informata dei fatti dato che ha prestato soldi proprio a Labellarte. In tribunale, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Pasquale Drago, Settanni disse: «Ero molto amico di Michele Labellarte, gli prestai tanti soldi, quando andai a trovarlo in ospedale c'era Savino Parisi o almeno così mi dissero dopo». Settanni uscirà pulito da questa storia, solo un teste informato dei fatti, nessuna accusa. Ma il suo nome rimane comunque legato ad una vicenda che ha segnato Bari.
«I dubbi sulla legittimità della scelta – dichiara il deputato PD Marco Lacarra – sorgono dalla circostanza che sia stato ritenuto idoneo non solo un immobile appartenente ad un privato, ma proprio quell'immobile, e non uno degli edifici pubblici che ben avrebbero potuto accogliere gli uffici del Tribunale penale di Bari. Sull'immobile, o meglio sul suo proprietario, aleggia l'ombra di collusione mafiosa, per aver prestato soldi ad uno dei clan baresi. La scelta si appalesa sciagurata e non proprio cristallina, sintomatica, nel migliore dei casi, di superficialità ed incompetenza, dettata dalla smania di dimostrare a tutti i costi che "qualcosa si è fatto", che il "problema" è stato risolto. Non importa se poi la cura risulta essere peggio della malattia».
E sollecitato in merito alle motivazioni che hanno portato alla scelta di questo immobile, in aula alla Camera, è intervenuto proprio il ministro Alfonso Bonafede. «La procedura di individuazione dell'immobile, destinato a ospitare gli uffici giudiziari baresi - ha dichiarato Bonafede - è stata eseguita nel pieno del rispetto delle regole, in maniera pubblica e pienamente trasparente. Ricordo che secondo il codice degli appalti lo stesso non si applica a questo tipo di procedura, possono essere saltati quasi tutti i controlli che vengono fatti per il codice degli appalti. Il ministero ha invece voluto una documentazione molto più completa, all'esito della quale non veniva rilevato nessun motivo ostativo. Per me però non è irrilevante una notizia che arriva da fonti di stampa e dà una segnalazione, per questo ho dato mandato agli uffici di fare tutti gli approfondimenti necessari, oltre a quelli già fatti che sono andati oltre quelli previsti per legge».
L'ex palazzo Inpdap, infatti, è stato acquistato dalla Sopraf srl, amministrata da Roberto Patano e Giuseppe Settanni. E proprio il nome di quest'ultimo ha acceso vecchi ricordi di mafia, collusione e arresti importanti. Il suo nome è legato a quello di Michele Labellarte, considerato dagli inquirenti come il cassiere del clan Parisi fino alla sua morte, avvenuta a causa di un tumore nel 2009. Il nome di Labellarte richiama echi di un'inchiesta che proprio in quell'anno sconvolse la tranquillità barese, scoperchiando un vaso di pandora che vedeva coinvolti in loschi traffici imprenditori, mafiosi, e politici di diversi schieramenti. Qualcuno ricorderà anche lo scandalo dietro la costruzione di quello che era stato definito "il più grande campus d'Italia", con 3500 posti letto a Valenzano. Storie da film, con Labellarte che sul letto di ospedale è costretto dai suoi compari mafiosi a spiegare dove sono i soldi, di cui lui si è da anni occupato e che tutti temono di perdere in caso di sua morte improvvisa. E come entra Settanni in tutto questo? Entra come testimone nel processo successivo all'inchiesta, come persona informata dei fatti dato che ha prestato soldi proprio a Labellarte. In tribunale, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Pasquale Drago, Settanni disse: «Ero molto amico di Michele Labellarte, gli prestai tanti soldi, quando andai a trovarlo in ospedale c'era Savino Parisi o almeno così mi dissero dopo». Settanni uscirà pulito da questa storia, solo un teste informato dei fatti, nessuna accusa. Ma il suo nome rimane comunque legato ad una vicenda che ha segnato Bari.
«I dubbi sulla legittimità della scelta – dichiara il deputato PD Marco Lacarra – sorgono dalla circostanza che sia stato ritenuto idoneo non solo un immobile appartenente ad un privato, ma proprio quell'immobile, e non uno degli edifici pubblici che ben avrebbero potuto accogliere gli uffici del Tribunale penale di Bari. Sull'immobile, o meglio sul suo proprietario, aleggia l'ombra di collusione mafiosa, per aver prestato soldi ad uno dei clan baresi. La scelta si appalesa sciagurata e non proprio cristallina, sintomatica, nel migliore dei casi, di superficialità ed incompetenza, dettata dalla smania di dimostrare a tutti i costi che "qualcosa si è fatto", che il "problema" è stato risolto. Non importa se poi la cura risulta essere peggio della malattia».
E sollecitato in merito alle motivazioni che hanno portato alla scelta di questo immobile, in aula alla Camera, è intervenuto proprio il ministro Alfonso Bonafede. «La procedura di individuazione dell'immobile, destinato a ospitare gli uffici giudiziari baresi - ha dichiarato Bonafede - è stata eseguita nel pieno del rispetto delle regole, in maniera pubblica e pienamente trasparente. Ricordo che secondo il codice degli appalti lo stesso non si applica a questo tipo di procedura, possono essere saltati quasi tutti i controlli che vengono fatti per il codice degli appalti. Il ministero ha invece voluto una documentazione molto più completa, all'esito della quale non veniva rilevato nessun motivo ostativo. Per me però non è irrilevante una notizia che arriva da fonti di stampa e dà una segnalazione, per questo ho dato mandato agli uffici di fare tutti gli approfondimenti necessari, oltre a quelli già fatti che sono andati oltre quelli previsti per legge».