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Attualità

Un anno fa il lockdown: il futuro negato

Un anno fa la chiusura imposta dal Governo segnava l'inizio dell'emergenza sanitaria che ha cambiato le nostre vite

Sui libri di storia si scriverà che il 9 marzo 2020 l'Italia entrò in "lockdown", una parola di origine anglosassone sconosciuta sino ad allora ai più. Quell'atto governativo forte, con sua emittenza Giuseppe Conte a spiegarne le ragioni, ha cambiato certamente il nostro modo di vivere, ma ha iniziato a farci percepire la reale gravità della situazione.

Il Presidente del Consiglio in tv interruppe il flusso quotidiano delle nostre esistenze, irruppe suo malgrado nel fluire dei nostri giorni. Stop a tutto: al caffè con gli amici, ai film visti al cinema, agli abbracci, alle feste comandate in famiglia, ai concerti a cantare a squarciagola, ai capannelli in piazza (allora sì, oggi meno), alle partite allo stadio (è già storia sportiva italiana anche il Bari, che fu l'ultima squadra ad essere in campo contro il Catanzaro proprio quella sera).

Pandemia, emergenza sanitaria, distanziamento sociale, Coronavirus iniziarono ad essere parole usate comunemente da tutti, con qualsiasi grado di istruzione. L'Italia entrava nel tunnel da cui non è ancora uscita, piangendo ieri, 8 marzo 2021, il superamento macabro della soglia dei 100mila morti. Centomila croci sulle nostre coscienze.

Un anno dopo sarete bombardati del ricordo di quanto accadde e a noi non interessa fare retorica facile. Quel che invece ci sta a cuore è pensare al nostro "futuro negato", al muro calato dinanzi a noi che ancora facciamo fatica a rompere. Un po' per colpa nostra (le regole dopo i primi tempi furono chiare, ma in troppi tendono a non rispettarle) e molto per responsabilità di una classe politica inadeguata.

Un futuro negato alle giovani coppie che vogliono sposarsi e che sono in attesa di "tempi migliori"; futuro incerto per chi lavora nella scuola e nell'università, dove si naviga a vista, mondi che sono costretti ad onorare i propri "caduti" sul campo; futuro negato per i bimbi che non possono giocare per strada; domani senza certezze anche per i giovani medici e gli operatori sanitari, buttati in prima linea come carne da macello, a volte presi in giro e non ancora assunti. Domani negato o incerto per migliaia di lavoratori autonomi e partite IVA e per chi ha un'attività commerciale.

Un muro. Enorme. Davanti alle nostre esistenze.

Abbiamo perso tante persone tra quelli considerati (a torto) quasi a fine corsa, quando invece sono coscienza, sapere e basi su cui fondare il nostro domani. Ma non bastava questo. Il virus si è preso anche i nostri sogni, i nostri progetti di viaggi, di serenità, di vita vissuta sino in fondo. Ci ha lasciato incertezza e sua maestà la paura, compagna di questo tratto di strada tutto in salita.

A volte, quando siamo soli, magari a sera, quel muro toglie l'aria a tanti e tante. Toglie il respiro, proprio come quel morbo maledettissimo che porta via frammenti delle nostre comunità, preziosi frammenti.

E così viviamo "alla giornata", sperando che quei cartelli comparsi un anno fa con la scritta "Andrà Tutto Bene" possano in qualche modo avere un minimo significato. Per ora non è andato tutto bene, lo sappiamo, e non possiamo affatto alzare i pugni al cielo per urlare la vittoria della scienza e la liberazione dei nostri corpi, delle nostre menti e dei nostri cuori.

Speriamo i vaccini siano il tappeto elastico per scavalcare quel muro e rivedere aprirsi nuovamente gli orizzonti vasti delle nostre vite. Siamo gente di mare e amiamo guardare lontano.
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