Calcio
Il Bari cola a picco. Ora inizia la discesa agli inferi
Marino sulla graticola, società e dirigenza allo sbando. Cronaca di un disastro annunciato
Bari - sabato 3 febbraio 2024
0.08
Il "bello" è che nessuno, in sua coscienza, credeva in un epilogo diverso. Palermo-Bari finisce esattamente come il copione lasciava intendere, con un 3-0 che va oltre i contorni di una "semplice" disfatta sportiva.
Commentare la partita sarebbe finanche superfluo; mister Marino dice di aver visto una squadra in partita fino al goal del 2-0, ma è solo l'ultimo tentativo di "free climbing" sugli specchi. Il Bari, per la seconda volta consecutiva, si presenta in campo per non più di una decina di minuti in totale, collezionando sole due palle goal in mischia con Puscas, fermato sulla linea da Brunori in entrambi i casi. Quando Ranocchia mette a segno il vantaggio, i biancorossi iniziano il processo di scioglimento, proseguito con il goal di Ceccaroni e conclusosi, nel finale, con il sigillo di Segre, a completamento di un film - l'ennesimo - dell'orrore.
Poco, ancora una volta troppo poco. Il Bari di Marino praticamente non c'è più, al netto di qualche debole progresso visto a inizio 2024, ma vanificato nelle ultime due - disastrose - partite e mezzo. Dal secondo tempo di Ascoli, in pratica, i biancorossi hanno gettato la spugna, alzando bandiera bianca e consegnandosi mani e piedi agli avversari. È lo specchio di un fallimento tecnico incontrovertibile, che con ogni probabilità nelle prossime ore costerà la panchina a Pasquale Marino.
Il tecnico siciliano, tuttavia, non è l'unico colpevole di un quadro così desolante, che domani pomeriggio (al termine della quarta giornata di ritorno) potrebbe vedere il Bari risucchiato nel pieno del pantano playout. Marino, dalla sua, non è riuscito nel miracolo di dare un senso a una squadra costruita male, senza capo né coda, intestardendosi nelle sue ambizioni "giochiste" con un capitale umano che, oltre ai limiti tecnici, ha evidenziato anche un deficit di personalità fragoroso.
Il Bari di questa stagione ha vissuto di qualche sparuto "up", per poi precipitare con disarmante frequenza in "down" repentini e - all'apparenza - inspiegabili. Ma qui, in realtà, di inspiegabile, c'è veramente poco. Basta regredire nella catena delle cause per individuare le responsabilità. A cominciare dal direttore sportivo Ciro Polito, che ha fortemente voluto il "maestro" Marino per ridare un senso a quanto lasciato da Michele Mignani, a cui va riconosciuta almeno la lucidità di analisi della situazione. Con il senno del poi, il Bari di Mignani con grande senso pratico riusciva a limitare i danni, portando a casa il pareggio davanti all'impossibilità di trovare la vittoria.
Un pragmatismo che, invece, a Marino è spesso e volentieri mancato; il tecnico di Marsala ha più volte ribadito che la sua squadra deve (anzi, forse sarebbe meglio dire "doveva") imporre il suo gioco in qualsiasi condizione, respingendo a priori l'ipotesi della "resistenza passiva". Ma di che gioco stiamo parlando? Le cose migliori i galletti le hanno fatte vedere in contropiede, esattamente l'arma preferita da Mignani nei suoi momenti di gloria; per questo tipo di schema, non c'era bisogno di cambiare guida tecnica. Con all'orizzonte, inoltre, la concreta possibilità di cambiare ancora, portando così a tre il numero di allenatori a libro paga, lì dove un ritorno di Mignani appare quantomeno improbabile visti i rapporti ormai deteriorati con il disse, a cui sono sfuggite le redini di mano.
Insomma, non si salva nessuno e niente. La costruzione della squadra è stata approssimativa, tardiva e piena di punti di domanda. Il ritiro estivo è stato svolto con un contingente esiguo, i rinforzi più importanti sono arrivati solo dopo metà agosto, con prestiti e altre forme contrattuali precarie, e non hanno lasciato il segno. Elementi fortemente voluti da Polito, e giunti a Bari con il pedigree del "calciatore di categoria" (da Acampora a Frabotta, da Diaw ad Aramu) hanno fatto la fine del celebre Godot, il personaggio del dramma di Samuel Beckett noto per farsi attendere all'infinito.
Già, Aramu… L'ex Venezia è esattamente la pietra angolare del discorso. Arrivato a fine estate con gli squilli di tromba del top player, quello che non avrebbe fatto rimpiangere lo sfortunato Menez, a inizio febbraio si trova fuori rosa con un ingaggio pesante, dopo aver fallito sul piano tecnico e dopo aver rinunciato a ogni possibile soluzione alternativa. La permanenza di Aramu ha, in concreto, bloccato anche il mercato invernale, dove Polito ha dovuto spendere i pochissimi soldi messi a disposizione dalla società per prendere anche meno dello stretto indispensabile. Kallon, dopo il buon inizio, pian piano si sta appiattendo sulla mediocrità generale della squadra, Lulic è un altro che andrà aspettato per chissà quanto tempo, Puscas è in evidente ritardo di condizione, e Guiebre è tutto da valutare. Per non parlare, poi, delle voci di una possibile lite tra Sibilli e Ricci, che sarebbe il "de profundis" finale su un contesto già di per sé incendiato dalla contestazione della tifoseria, stanca di rimanere "tra color che son sospesi".
Non c'è stato modo, tempo e spazio per rinforzare una difesa che prende goal a ogni uscita, e per puntellare un centrocampo che non abbonda in certezze. E qui, finalmente, il nostro regresso nella catena delle cause arriva al primo motore immobile. Al netto degli errori nella gestione tecnica, le responsabilità maggiori vanno collocate nelle scelte societarie. Paradosso di paradossi, l'impresa sfiorata dell'anno scorso ha fatto più male che bene, perché ha dato ai De Laurentiis l'impressione di poter ottenere grandi risultati contenendo costi e investimenti anche al di sotto della soglia di sopravvivenza. Il presidente Luigi De Laurentiis ha spesso parlato di "sostenibilità" e "aggressione del mercato" (espressione che il buon senso consiglierebbe di lasciare da parte la prossima volta), due vuoti slogan che mostrano la tautologia della loro contraddittorietà.
Ma questo non è ancora il momento dei processi, delle condanne e delle assoluzioni. Sì, perché ora c'è da salvare il salvabile, in una stagione che si sta trasformando in un'inattesa discesa negli inferi dei bassifondi della classifica, con il concreto rischio di seguire le ancora freschissime orme di Benevento e Spal, due big finite nel frullatore della retrocessione appena un anno fa, quando il Bari accarezzava il sogno della gloria. I più ottimisti non vogliono neanche prendere in considerazione l'ipotesi di un drammatico ritorno in serie C, e fanno bene. Salvare la barca e riportarla, come minimo, in linea di galleggiamento non solo è possibile, ma è doveroso. Per il rispetto dovuto alla città, che nonostante tutto il suo calore non lo ha mai fatto mancare alla squadra, e per l'amore della propria dignità. Per i De Laurentiis il primo e fondamentale obiettivo è mettersi al sicuro in classifica, e poi pensare concretamente al futuro di Bari oltre il parossismo della multiproprietà, il cavillo che ha solo contribuito a incrinare un rapporto che si è deteriorato irreparabilmente.
Commentare la partita sarebbe finanche superfluo; mister Marino dice di aver visto una squadra in partita fino al goal del 2-0, ma è solo l'ultimo tentativo di "free climbing" sugli specchi. Il Bari, per la seconda volta consecutiva, si presenta in campo per non più di una decina di minuti in totale, collezionando sole due palle goal in mischia con Puscas, fermato sulla linea da Brunori in entrambi i casi. Quando Ranocchia mette a segno il vantaggio, i biancorossi iniziano il processo di scioglimento, proseguito con il goal di Ceccaroni e conclusosi, nel finale, con il sigillo di Segre, a completamento di un film - l'ennesimo - dell'orrore.
Poco, ancora una volta troppo poco. Il Bari di Marino praticamente non c'è più, al netto di qualche debole progresso visto a inizio 2024, ma vanificato nelle ultime due - disastrose - partite e mezzo. Dal secondo tempo di Ascoli, in pratica, i biancorossi hanno gettato la spugna, alzando bandiera bianca e consegnandosi mani e piedi agli avversari. È lo specchio di un fallimento tecnico incontrovertibile, che con ogni probabilità nelle prossime ore costerà la panchina a Pasquale Marino.
Il tecnico siciliano, tuttavia, non è l'unico colpevole di un quadro così desolante, che domani pomeriggio (al termine della quarta giornata di ritorno) potrebbe vedere il Bari risucchiato nel pieno del pantano playout. Marino, dalla sua, non è riuscito nel miracolo di dare un senso a una squadra costruita male, senza capo né coda, intestardendosi nelle sue ambizioni "giochiste" con un capitale umano che, oltre ai limiti tecnici, ha evidenziato anche un deficit di personalità fragoroso.
Il Bari di questa stagione ha vissuto di qualche sparuto "up", per poi precipitare con disarmante frequenza in "down" repentini e - all'apparenza - inspiegabili. Ma qui, in realtà, di inspiegabile, c'è veramente poco. Basta regredire nella catena delle cause per individuare le responsabilità. A cominciare dal direttore sportivo Ciro Polito, che ha fortemente voluto il "maestro" Marino per ridare un senso a quanto lasciato da Michele Mignani, a cui va riconosciuta almeno la lucidità di analisi della situazione. Con il senno del poi, il Bari di Mignani con grande senso pratico riusciva a limitare i danni, portando a casa il pareggio davanti all'impossibilità di trovare la vittoria.
Un pragmatismo che, invece, a Marino è spesso e volentieri mancato; il tecnico di Marsala ha più volte ribadito che la sua squadra deve (anzi, forse sarebbe meglio dire "doveva") imporre il suo gioco in qualsiasi condizione, respingendo a priori l'ipotesi della "resistenza passiva". Ma di che gioco stiamo parlando? Le cose migliori i galletti le hanno fatte vedere in contropiede, esattamente l'arma preferita da Mignani nei suoi momenti di gloria; per questo tipo di schema, non c'era bisogno di cambiare guida tecnica. Con all'orizzonte, inoltre, la concreta possibilità di cambiare ancora, portando così a tre il numero di allenatori a libro paga, lì dove un ritorno di Mignani appare quantomeno improbabile visti i rapporti ormai deteriorati con il disse, a cui sono sfuggite le redini di mano.
Insomma, non si salva nessuno e niente. La costruzione della squadra è stata approssimativa, tardiva e piena di punti di domanda. Il ritiro estivo è stato svolto con un contingente esiguo, i rinforzi più importanti sono arrivati solo dopo metà agosto, con prestiti e altre forme contrattuali precarie, e non hanno lasciato il segno. Elementi fortemente voluti da Polito, e giunti a Bari con il pedigree del "calciatore di categoria" (da Acampora a Frabotta, da Diaw ad Aramu) hanno fatto la fine del celebre Godot, il personaggio del dramma di Samuel Beckett noto per farsi attendere all'infinito.
Già, Aramu… L'ex Venezia è esattamente la pietra angolare del discorso. Arrivato a fine estate con gli squilli di tromba del top player, quello che non avrebbe fatto rimpiangere lo sfortunato Menez, a inizio febbraio si trova fuori rosa con un ingaggio pesante, dopo aver fallito sul piano tecnico e dopo aver rinunciato a ogni possibile soluzione alternativa. La permanenza di Aramu ha, in concreto, bloccato anche il mercato invernale, dove Polito ha dovuto spendere i pochissimi soldi messi a disposizione dalla società per prendere anche meno dello stretto indispensabile. Kallon, dopo il buon inizio, pian piano si sta appiattendo sulla mediocrità generale della squadra, Lulic è un altro che andrà aspettato per chissà quanto tempo, Puscas è in evidente ritardo di condizione, e Guiebre è tutto da valutare. Per non parlare, poi, delle voci di una possibile lite tra Sibilli e Ricci, che sarebbe il "de profundis" finale su un contesto già di per sé incendiato dalla contestazione della tifoseria, stanca di rimanere "tra color che son sospesi".
Non c'è stato modo, tempo e spazio per rinforzare una difesa che prende goal a ogni uscita, e per puntellare un centrocampo che non abbonda in certezze. E qui, finalmente, il nostro regresso nella catena delle cause arriva al primo motore immobile. Al netto degli errori nella gestione tecnica, le responsabilità maggiori vanno collocate nelle scelte societarie. Paradosso di paradossi, l'impresa sfiorata dell'anno scorso ha fatto più male che bene, perché ha dato ai De Laurentiis l'impressione di poter ottenere grandi risultati contenendo costi e investimenti anche al di sotto della soglia di sopravvivenza. Il presidente Luigi De Laurentiis ha spesso parlato di "sostenibilità" e "aggressione del mercato" (espressione che il buon senso consiglierebbe di lasciare da parte la prossima volta), due vuoti slogan che mostrano la tautologia della loro contraddittorietà.
Ma questo non è ancora il momento dei processi, delle condanne e delle assoluzioni. Sì, perché ora c'è da salvare il salvabile, in una stagione che si sta trasformando in un'inattesa discesa negli inferi dei bassifondi della classifica, con il concreto rischio di seguire le ancora freschissime orme di Benevento e Spal, due big finite nel frullatore della retrocessione appena un anno fa, quando il Bari accarezzava il sogno della gloria. I più ottimisti non vogliono neanche prendere in considerazione l'ipotesi di un drammatico ritorno in serie C, e fanno bene. Salvare la barca e riportarla, come minimo, in linea di galleggiamento non solo è possibile, ma è doveroso. Per il rispetto dovuto alla città, che nonostante tutto il suo calore non lo ha mai fatto mancare alla squadra, e per l'amore della propria dignità. Per i De Laurentiis il primo e fondamentale obiettivo è mettersi al sicuro in classifica, e poi pensare concretamente al futuro di Bari oltre il parossismo della multiproprietà, il cavillo che ha solo contribuito a incrinare un rapporto che si è deteriorato irreparabilmente.